Ai bambini il mare fa
bene. Ai bambini il mare fa bene. Ai bambini…
Ripeto la frase come un mantra, muovendo appena le labbra,
mentre trascino un passo riluttante lungo il vialetto d’accesso allo
stabilimento balneare. La terrazza del ristorante incombe come la guardiola di
un campo di concentramento; intravedo la doppia fila di cabine oltre l’ingresso,
ai lati di un altro camminamento che conduce alla spiaggia. Non vedo le guardie
armate, ma di sicuro sono lì, che mi osservano mentre spingo il passeggino carico
di grottesche borse a fiori, riempite allo spasimo: non posso concedermi un
passo falso, o un minimo accenno di fuga. Avanti, testa basta, bicipiti tesi,
mentre le ruote affondano nella ghiaia grossa, alta due dita.
Dentro. La muraglia compatta di ombrelloni riempie lo spazio
del campo. Ai lati, barriere di corda grossa e marrone, tese fra paletti
bianchi come ossa spolpate dal sole. La sabbia arroventa l’aria dove aleggiano
miraggi; mi assale il lezzo di crema e carne bruciata. Il mare
occhieggia in fondo alla distesa di postazioni; è piatto, azzurrognolo,
punteggiato di corpi. Un refolo di brezza porta odore di salsedine e
putrefazione; il ragazzo del bagno ci guida al nostro ombrellone. Lo
osservo mentre cammina: muscoli dorsali ipertrofici guizzano come serpenti
sotto la pelle unta. Ha le gambe lisce come i tentacoli di un polipo, il
costume minuscolo incastrato fra le natiche, i capelli rasati, un’enciclopedia
di tatuaggi sulla schiena e sulle spalle. Quel Superman senza mantello allunga
un braccio da culturista per indicare, ieratico, il luogo e gli strumenti
destinati al decubito dei nostri corpi; ombrellone, sdraio, lettino: oggetti
che nascondono insidie mortali, trappole a molla pronte a scattare al minimo
tentativo di regolarne la posizione, mutilando dita, unghie, falangi, a volte
arti interi.